Mefite

Luoghi di straordinaria bellezza paesaggistica e di incredibile forza naturale, luoghi che non ti aspetti e che non immagini si nascondono nella regione Campania, come le Mefite di Rocca San Felice, provincia di Avellino, piccolo lago di origine solfurea nella Valle d’Ansanto. Già noto a Virgilio che ne raccontava la forza poderosa tale da condurre in un sonno eterno, il laghetto si offre alla vista dello spettatore come un’arida distesa dall’odore forte e dal vivace ribollire delle acque.

Esalazioni gassose di anidride carbonica e acido solforico (che produce l’odore acre) producono il ribollire delle acque in una zona non vulcanica. La vegetazione nelle immediate vicinanze è assente e in particolari condizioni climatiche le esalazioni risultano essere addirittura letali. Ecco il motivo per cui Virgilio descrive il luogo come uno degli accessi agli Inferi simile per le caratteristiche al Lago d’Averno nei Campi Flegrei. Qua è là sono visibili chiazze gialle di zolfo e risulta essere un luogo unico al mondo per le concentrazioni di anidride carbonica.

Ma la storia del luogo si intreccia anche con resti archeologici legati alla dea Mefite venerata soprattutto nell’universo femminile come protettrice della fertilità e delle donne, a cui era stato dedicato un tempio nei pressi del lago individuato alla metà dello scorso secolo in seguito a scavi archeologici. Come sempre accadeva i fenomeni naturali venivano spiegati e tenuti a bada con la religiosità e i rituali di devozione.
I resti erano già stati individuati nel 1780 da Vincenzo Maria Santoli. Del tempio, databile al VII secolo a.C. restano alcuni reperti visibili nel Museo Irpino di Avellino, come gli oggetti di uso personale donati come ex voto alla dea. Xoane (sculture lignee a figura umana), oggetti di ambra, di oro, argento e bronzo, statuine raffiguranti diverse divinità, ceramiche armi, vasellame sono la testimonianza del culto rigoglioso dedicato alla divinità che sovrintendeva alla fertilità della terra che ancora oggi caratterizza la produzione di un formaggio pecorino unico proprio per la presenza dello zolfo nella zona, il carmasciano. Un luogo assolutamente unico, dove la natura vince e predomina sull’uomo, tanto che è assolutamente obbligatorio porsi a debita distanza dalle esalazioni per motivi di sicurezza ed incolumità. 
La storia
Per comprendere bene il significato della Mefite, occorre partire dai secoli XI-X A. C., quando, gli Oschi (o Osci o Ausoni), erano stanziati a sud dell’Umbria. L’espansione Etrusca, unitamente alla crescita demografica degli Oschi (o Osci), indusse alcune loro tribù a muoversi lungo l’Appennino in direzione sud. La destinazione finale non era predefinita, nel senso che non veniva decisa a priori, ma dipendeva dalla direzione presa dall’animale-guida: per quella parte che prese il nome di Sanniti fu il cinghiale, per gli Hirpini fu il lupo (hirpus).
Una parte degli Hirpini, giunse alla Mefite, che si vede nell’immagine, che elesse come nuovo luogo di stabilimento, creando villaggi (vici) e casolari di campagna (pagi), riunendosi per motivi difensivi e per eleggere i magistrati. Poichè il contesto ambientale presentava caratteristiche alquanto dure per la vita umana, oltre che “misteriose”, gli Hirpini, che veneravano la Dea Giunone Mefitide, come le altre popolazioni italiche di quasi tutta l’Italia meridionale, cominciarono ad immolare animali in favore della divinità e ad offrirle in dono preziosi beni personali, onde accattivarsene la protezione.
Col passare dei secoli, la diffusione di racconti che riportavano accadimenti “straordinari” attrasse sempre più credente verso la valle sacra alla Dea Mefite. Fu così che le venne dedicato un Santuario, visto che i fenomeni naturali della Mefite venivano interpretati come prova evidente del potere della Dea, in grado di proteggere i fedeli, uomini, donne, guerrieri, pastori, agricoltori. I resti del tempio, già individuato dal Santoli verso il 1780, vennero alla luce a seguito di scavi archeologici compiuti negli anni ’50 e ’60 di G. O. Onorato e le successive di B. D. D’Agostino e I. Rainini, restituendoci oggetti d’ambra, oggetti d’oro, argento e bronzo, statuette, ceramiche, monete ed ex-voto (es. mani e piedi votivi), armi in ferro e bronzo, vasellame, oggi visibili presso il Museo Irpino di Avellino. Si tratta di una testimonianza “corposa” della cultura figurativa italica, dall’epoca sannitica (leggasi hirpina), all’influsso ellenistico sino alle soglie della romanizzazione.

I resti del tempio, già individuato dal Santoli verso il 1780, vennero alla luce a seguito di scavi archeologici compiuti negli anni ’50 e ’60 di G. O. Onorato e le successive di B. D. D’Agostino e I. Rainini, restituendoci oggetti d’ambra, oggetti d’oro, argento e bronzo, statuette, ceramiche, monete ed ex-voto (es. mani e piedi votivi), armi in ferro e bronzo, vasellame, oggi visibili presso il Museo Irpino di Avellino. Si tratta di una testimonianza “corposa” della cultura figurativa italica, dall’epoca sannitica (leggasi hirpina), all’influsso ellenistico sino alle soglie della romanizzazione.

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